TRIBUTO A SILVESTRE LOCONSOLO - BIOGRAFIA

Chi conosce Silvio?

Sono nato il 16 ottobre 1921 in Puglia, a Orta Nova vicino a Foggia. Ma sono stato subito portato a Milano. Sono milanese. Mio nonno disse “Silvestro” all'impiegato del comune sfumando in “e” la “o” finale, come fanno sempre i pugliesi. Quello scrisse al volo e così per l'anagrafe rimasi Silvestre. 

Mio padre, contadino, era emigrato al nord dopo la prima guerra mondiale; era diventato ferroviere accenditore di locomotive al deposito di Greco, analfabeta, eppure di opinione antifascista.Negli anni Trenta a Milano era dura per un ragazzo che voleva lavorare ancora prima di avere 14 anni. Non mi piaceva studiare, allora bigiavo la scuola e andavo di nascosto a fare il garzone da un lattoniere che mi mandava a prendere le lamiere con un carretto a mano che spingevo con quanta fatica da Porta Vittoria fino a Piazzale Loreto. Fui naturalmente bocciato.
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Allora decisi di iscrivermi al corso serale ottenendo l'attestato, fui così assunto come garzone dalla fabbrica di ottica dei fratelli polacchi Koristka di via Ampère, dove si producevano obiettivi e microscopi. Un giorno un operaio mi chiede di portare una bottiglia d'alcol nel suo armadietto, negli spogliatoi mi cadde, l'odore ci tradì, e il padrone che arrivava proprio in quel momento licenziò in tronco me e il mio collega. Scoprii in seguito che l'operaio si era appena separato dalla moglie e il piccolo furto gli consentiva di cucinarsi qualcosa su un fornello portatile. 
“Licenziato in tronco” sul libretto voleva dire non trovare più lavoro, essere considerato quasi un delinquente. Approfittando del trasloco di casa allora bruciai il libretto, ne denunciai lo smarrimento ed ebbi un duplicato senza la tremenda dicitura. Con il libretto di lavoro ritornato vergine, fui assunto dal Consorzio Laboratori Ottici, e poi dalla ditta dell'ingegner Castelli, aziende che producevano lenti per occhiali. Quando seppi che i Koristka avevano riassunto l'operaio, andai a protestare finché riprendessero anche me. Intanto avevo trovato anche un lavoro serale in una fabbrica di lenti a una lira allora per comprarmi una Stelo Voigtländer 6X9 a soffietto, che avevo sognato per mesi davanti a una vetrina di via Vitruvio. Costava 270 lire.
Nel 1938 a 17 anni entrai in un'altra fabbrica ottica la Galileo con stabilimento a Milano in viale Eginardo e a Firenze. Operato a un rene, tornai a lavorare con la ferita ancora aperta, perché dopo il terzo mese di malattia potevano licenziarmi, e ripresi il lavoro specializzandomi nella centratura e tornitura delle lenti.Comincia a fotografare proprio nel ’38, aiutato da un amico ritoccatore di lastre fotografiche, imparai a sviluppare negativi e la stampa contatto.Si avvicinava la guerra, la Galileo produceva soprattutto congegni di puntamento per carri armati e binocoli per la marina. Salimmo a 1000 dipendenti. Operai colti, disincantati, non teneri con il regime. Ci portavano intruppati ai comizi, ma, prima di arrivare in Piazza, più di tre quarti erano spariti.Con la guerra la Galileo si trasferì ad Angera nel capannone della Bernocchi, fabbrica  Tessile allora in attività. C'era la crisi di produzione e io fui licenziato per lasciare il posto ad un compagno di lavoro sposato.
Rientarai a Milano nella casa vuota, perché la mia famiglia era sfollata e vi rimasi con mio padre fino alla fine della guerra. Dalle finestre di casa, in via dell'Aprica, si guardava sullo scalo merci Farini. Ricordo i risvegli notturni per le grida dei rastrellati dai fascisti e dai tedeschi, chiusi nei carri merci per essere deportati in Germania. Ma c'era stato un incontro che aveva dato una svolta alle mie idee, avevo conosciuto e simpatizzato con due fratelli, Annamaria e Gino Sant'Agostino, di famiglia antifascista. In casa nascondevano quattro componenti di una famiglia ebrea e vivevano in otto in una stanza. Frequentando quella casa avevo scoperto i valori della solidarietà umana. Grazie ad Annamaria che lavorava alla Face Standard entrai in contatto con il Movimento partigiano e con le Sap che operavano sul territorio della fabbrica. Facevamo volantinaggi serali e operavamo disarmi, in una delle tante azioni fui anche ferito.
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L'insurrezione del 25 aprile mi vide nel gruppo che disarmò il corpo di guardia tedesco dello Scalo Farini verso la vecchia Ghisolfa. Recuperammo anche un milione e mezzo sottraendolo ad un ufficiale tedesco. 
Mi sono iscritto al PCI nel giugno del 1945. Ricordo le lunghe passeggiate all'uscita della fabbrica al ponte della Ghisolfa parlando di Marx col vecchio compagno Carlo Re. Mi spiegava anche le teorie evoluzioniste di Camille Flammarion e di Darwin. Divenni un attivista del PCI e partecipai al primo corso di partito tenuto da Giovanni Brambilla, alla torre abbandonata sul ponte delle Milizie di viale Cassala.
Io intanto ero rientrato alla Galileo riprendendo la specializzazione nella centratura e tornitura delle lenti e dopo un po' di tempo mi fu riconosciuta la qualifica di operaio provetto, poi specializzato. Divenni anche il responsabile della cellula. In questa fabbrica l'antifascismo aveva dato i suoi frutti: il sindacato, la CGIL soprattutto, e i partiti, il PCI, la DC e il PSI erano molto attivi e raccoglievano attorno a sé tanti lavoratori. 
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In fabbrica eravamo molto attivi e io fui arrestato, una prima volta, per un volantinaggio sindacale è una seconda mentre attaccavo manifesti.
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Avevamo un giornaletto “L'obiettivo”. C'era in prima pagina il disegno dei raggi di luce nella lente, ma si poteva anche leggere “obiettivo di una società migliore”. Alla fine degli anni Cinquanta mi iscrissi a un corso privato per cineoperatori, in via Torino. Comprai una cinepresa 8 mm pensando di documentare le lotte operaie in città. Nel 1962 ci fu una famosa vertenza alla Borletti, con la tenda in Piazza Irnerio. Qui ho conosciuto Ivan della Mea, che mi aiutò a fare il sonoro del filmino.
Vittorio Bellani, un operaio della Galileo, ha scritto un racconto pubblicato sul metallurgico: Chi non conosce Silvestre?
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La fotografia torna nel 1963, quando nel mese di novembre restai senza lavoro perché la Galileo aveva chiuso i reparti ottici per trasferirli a Firenze- Avrei potuto andarci, ma mi ero battuto contro il piano di ristrutturazione, e anche Rosa, mia moglie, preferì non lasciare Milano. Decisi allora di provare con la fotografia.
Ottenni solo dopo tre mesi, e tante proteste, la licenza di fotografo ambulante, mi feci prestare una Voigtländer 35 mm con ottica fissa e con questa iniziai a lavorare. Spesso i colleghi mi prendevano in giro. 

La svolta decisiva avvenne nel 1964 quando i miei genitori, con i quali io e Rosa abitavamo, mi permisero di usare un pezzo del corridoio per fare la camera oscura. Usai quasi tutti i soldi della liquidazione per comprare l'attrezzatura. Acquistai la Rollei 6x6, la mia macchina preferita, e poi la Canon 35 mm. Lavoravo molto, spesso fino a tardi e i giornali venivano a prendere le mie foto anche in piena notte. Non trovavo difficoltà a vendere i miei servizi e all'inizio mi meraviglia di questo fatto.
Certo, allora non erano in tanti a seguire le lotte dei lavoratori, ma forse io ero avvantaggiato perché ero un operaio pubblicizzato, perché capivo che cosa volevano gli operai, perché sapevo cogliere il significato delle reazioni. Alcuni colleghi certe volte non capivano e mi chiedevano perché volevo fotografare proprio quel cartello, quello striscione o quel gruppo di lavoratori.
Dopo alcuni mesi pensai di allargare la mia attività e aprì un laboratorio in via Dandolo, proprio di fianco alla Camera del Lavoro, assieme ad un altro fotografo. facevamo i servizi sul sindacato, ma dopo un po' di tempo capì che non avevamo la stessa motivazione verso questo lavoro. Gli comprai i negativi, una parte dell'attrezzatura e me ne andai. Nel frattempo aveva avuto contatti con i dirigenti della Camera del Lavoro della Fiom, in particolare con Saverio Nigretti, allora segretario dei metalmeccanici, ai quali fornivo molti servizi fotografici. Ci eravamo accordati per attrezzare un piccolo laboratorio nei sotterranei del palazzo di Corso di Porta Vittoria, di fianco al centro stampa, che sfornava centinaia di volantini e accanto al magazzino dove stavano in deposito gli striscioni e cartelli fissati alle lunghe aste di legno. In cambio dell’uso dee laboratorio proposi di fornire fotografie prezzo scontato. 
Siamo nell'autunno del 1965 inizia qui la mia lunga collaborazione con la CGIL, che durerà fino alla fine del 1980. Sono stati anni proprio belli, pieni di soddisfazioni. credo di essere stato davvero il fotografo della classe operaia. Ho fatto una scelta di campo anche professionale. Nella mia autonomia di fotografo vendevo solo a “l'Unità”, a “L’Avanti”, a “L'avvenire” per i suoi rapporti con la CISL, a “Il giornale dei Lavoratori” delle ACLI e qualche volta a “Il giorno”. Quando non potevo seguire tutti gli avvenimenti, scambiavo negativi con il fotografo de“l'Unità”. 
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Soprattutto quelli fra il 1968 e il 1974 sono stati anni durissimi. Facevo anche tre servizi al giorno, spostandomi in bici, metropolitana, auto. La polizia e carabinieri mi guardavano meravigliati perché mi trovavano dappertutto. Dovevo sviluppare subito, stampare i negativi migliori, e poi spedire giornali. Provini non ne ho mai fatti, allora mi bastava scegliere il fotogramma buono guardando la pellicola ancora bagnata: mi ricordavo dove stavano i cartelli interessanti, le facce, i momenti migliori. 
Ho girato molto, non solo nei paesi della provincia, ma anche nel resto d'Italia e all'estero. sono andata a Torino a seguire lavoratori della Fiat, a Reggio Calabria, a Napoli, a Brindisi, a Cagliari, in Francia, tra le manifestazioni più importanti. 
Lavoravo anche per la CISL e la UIL, molto anche per le ACLI, mandavo le foto a Carniti e Benvenuto.
Non ero il fotografo che andava alla ricerca dello scontro anche se una volta le mie foto fatte a Veduggio durante una carica dei Carabinieri sono state usate come prova dal giudice a favore degli operai. Fotografavo “politicamente” e non cercavo l'immagine sensazionale. 
C'è stato un momento che per me era più pericoloso andare a fotografare gli studenti che non gli scontri tra operai e polizia, anche se un paio di volte polizia e carabinieri mi hanno impacchettato e portato in Questura. Una volta mi hanno anche sequestrato la macchina con il rullino, ma poi mi hanno rilasciato e  restituito tutto così com'era ora mi aspettavano centinaia di compagni.
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Nel 1969 sono riuscito a comprarmi la Laica M4 con due obiettivi originali e altri adattati, era la macchina che ho sempre desiderato di cui, posso dirlo, ero proprio innamorato.
Alla fine del 1980, dopo più di 40 anni di lavoro, ho deciso di smettere, nonostante il telefono di casa continua a suonare. Ho lavorato tanto, ma sono stato anche fortunato. Certi giorni guadagnavo bene e talvolta, pensando alle 110 lire al mese di quando facevo l'operaio, i soldi mi sembravano persino eccessivi, anche se come fotografo rubavo il doppio. 
Ho regalato la Laica M4 mio nipote. Lasciata la Camera del Lavoro non ho mai fatto ricerche personali, inquadratura artistiche ho però fatto molte foto nei miei viaggi, alla ricerca dei mestieri che andavano scomparendo.
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Ormai settantenne penso che il futuro appartenga alle nuove generazioni. 
Non mi rimane che lasciare le testimonianze che formano quella “biblioteca di esperienze” comune a molti uomini e donne nella mia generazione.

-Estratto dall'autobiografia di Silvestre Loconsolo-
  

pubblicata il 18 Marzo 2020

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